Le community sono gruppi di persone che condividono conoscenze, allargano e approfondiscono le proprie competenze su linguaggi e tecnologie di ultima generazione, incontrano professionisti, condividono idee e danno vita a nuovi progetti.
Insomma, le community tecnologiche costituiscono un terreno fertile per l’innovazione e sono sempre più una risorsa e un riferimento per professionisti e aziende che operano nell’ambito delle tecnologie per rimanere al passo con lo sviluppo tecnologico e conoscere le nuove tendenze del mercato.
Abbiamo quindi deciso di contattare esperti di comprovata esperienza chiedendo loro di condividere con noi le idee fondanti alla base di una community, le motivazioni dei membri, gli ostacoli da superare e, non ultimo, le differenze tra community senza fini di lucro e programmi community aziendali.
Alfredo Morresi è Senior Community Manager and Developer Relations di Google e gestisce un team che organizza eventi in ambito tech in tutta Europa.
Alfredo ha una grande esperienza nell’ambito dell’organizzazione di eventi e nella gestione di community tech ed ha trovato in Google l’ambiente naturale in cui realizzare le sue passioni per la tecnologia e le community.
Lo abbiamo incontrato al Codemotion 2023 di Milano e gli abbiamo fatto qualche domanda sulle tech community. Durante l’intervista, Alfredo ci ha offerto ottimi spunti di riflessione sulle dinamiche sociali delle community tecnologiche: cosa sono, come funzionano, come farle crescere, perché un’azienda può decidere di partecipare a una community o lanciare un suo programma community.
Se volete seguirlo, Alfredo è attivo su Twitter, LinkedIn, sul suo blog e in tanti altri posti, in rete e in giro per l’Europa.
Qual è il tuo background e qual è stato il tuo percorso professionale?
Da ragazzino i miei genitori mi regalarono un computer che rimase inutilizzato per 2 anni. A un certo punto mi chiesi cosa fosse e come funzionasse, così aprii per la prima volta il manuale dell’MS-DOS. Avevo 10 o 11 anni quando ho letto il mio primo manuale tecnico. Da lì ho sempre continuato a studiare e sviluppare software seguendo l’evoluzione della tecnologia.
L’ultima iterazione l’ho avuta sulle tecnologie mobile quando in Italia lo sviluppo mobile era ancora agli albori.
Già prima di entrare in Google gestivo community, condividevo informazioni, organizzavo conferenze. In Google ho trovato il connubio perfetto tra la mia anima sociale e la mia anima di sviluppatore, in un mestiere che mi permetteva di mettere insieme tech e social, ed era appunto la figura del Developer Relations, termine che ha già in sé l’aspetto tecnico e quello umano.
Di cosa ti occupi al momento e qual è la tua posizione attuale in Google?
Lavoro in Google nel team Developer Relations. Il mio compito è quello di far utilizzare le tecnologie di Google nel modo migliore possibile, oltre a seguire i programmi community per sviluppatori di Google: GDG (Google Developer Groups), GDSC (Google Developer Student Clubs), Women Techmakers. Si tratta di community di sviluppatori professionali attive in diversi ambiti, dallo sviluppo in generale agli ambiti universitario e diversity in tech.
Più nello specifico, mi occupo di dati e infrastruttura per i programmi community. Il mio compito è capire cosa fanno queste community, misurarlo e rendere queste informazioni fruibili e utili per decidere cosa fare dopo.
Creare e gestire una community presenta delle sfide che vanno al di là delle competenze tecniche. Quali sono le soft skill necessarie per gestire una tech community?
Se guardiamo la community come un contenitore, la tecnologia è il contenuto. Quello che è fuori dalla parte tech è il contenitore, cioè l’insieme delle abilità necessarie a capire il modo in cui le persone interagiscono. Perché ci si ritrova in una community? Quali sono le dinamiche sociali che portano le persone ad aggregarsi, a fare delle cose insieme, a darsi un’identità, a dare una mano e fare del giveback in modo che la community sopravviva, visto che spesso dipende dal volontariato?
Per quanto riguarda le skill, c’è sicuramente una parte riferita alla tecnologia a cui la community fa riferimento. Ma c’è una parte che comprende quelle abilità necessarie per essere un architetto della collaborazione umana. E questo richiede sensibilità e conoscenze che riguardano la psicologia, la sociologia, l’organizzazione. Quello del community manager è un po’ un mestiere dai mille cappelli, perché devi saper fare tante cose e farle tutte insieme. E poi non ci sono grandi possibilità di specializzazione con la crescita. In parte ce ne sono, ma c’è sempre alla base una multidisciplinarietà del mestiere che rimane costante lungo tutta la vita professionale.
Soffermiamoci un attimo sull’aspetto psicologico e sociale. Quali sono le dinamiche individuali e sociali di cui un Community Manager deve essere consapevole?
Un Community Manager deve essere consapevole dei bisogni delle persone e capire come queste si aspettano di soddisfarli all’interno della community. Deve capire cosa trasforma un gruppo di persone in una community, perché le persone rimangono e perché vanno via, e infine, cosa più importante per la sopravvivenza della community, capire quali sono le leve umane e sociali da muovere per fare in modo che altre persone contribuiscano alla vita della community.
La maggior parte delle persone consuma, e soltanto poche di queste contribuiscono. E questo è un problema in tantissime community dove chi la fonda ha una propensione molto forte a condividere conoscenze, aiutare gli altri, promuovere il territorio, fare giveback, organizzare, ecc. Ma spesso, oltre a questa persona, non ci sono molti altri che abbiano le stesse attitudini e motivazioni. Questo perché, per contribuire attivamente, bisogna avere tante caratteristiche, i mille cappelli di cui parlavamo prima, che è difficile trovare tutte insieme nella stessa persona.
Come fare in modo che la community duri nel tempo?
Devi essere consapevole delle dinamiche individuali e sociali di una community. Quindi non della tecnologia, cioè il contenuto di cui parlavamo prima, ma del contenitore della community. E soprattutto architettare un percorso di partecipazione. Cioè, non è pensabile che una persona che partecipa oggi per la prima volta ai lavori di una community possa immediatamente essere coinvolta nella gestione. Ci sono tanti piccoli passi di coinvolgimento progressivo che il Community Manager deve prevedere per coloro che vogliono partecipare alla vita della community.
La partecipazione dei nuovi membri è fatta di piccoli step. Hai partecipato per la prima volta ai lavori della community? Dimmi cosa ne pensi, qual è la tua opinione, dammi un feedback. Questo genera una certa attenzione nelle persone. Poi ti introduco al resto della community, così la prossima volta non avrai paura di partecipare. Questo offre dei buoni motivi per tornare ad un nuovo incontro.
Ci sono tanti tipi di contribuzione, da quelle più coinvolgenti e impegnative a quelle meno importanti, come l’organizzazione della sala, la ricerca degli speaker, ecc. Queste piccole cose ti portano a contribuire sempre di più e ad essere sempre più coinvolto nella vita della community, fino all’organizzazione dell’evento.
Quanto è importante la crescita della community?
Più della crescita è importante la scalabilità. La scalabilità riguarda l’ottimizzazione dei processi, ma è anche legata alla consapevolezza del funzionamento della community. Si individuano le inefficienze, le cose che richiedono più tempo, ecc. A volte nella gestione della community si presentano delle sfide che i membri della community possono decidere di affrontare. Ad esempio, se una community ha sempre organizzato dei meet-up, si può proporre l’obiettivo di organizzare una conferenza. Oppure, se abbiamo sempre organizzato qualcosa per un certo territorio, si può decidere di spostarsi o allargare il territorio.
Gestire una community deve essere un piacere. A volte è evidente l’opportunità del miglioramento dei membri, perché la community ti permette di svolgere delle attività e fare delle cose che altrimenti non faresti. Ma grazie alle sfide che ti pone una community, puoi intraprendere dei percorsi di crescita.
Poi c’è la crescita della community in termini numerici, di impatto, di membri, di competenze. Nelle community tech in particolare, il bisogno principale che viene soddisfatto è quello di imparare cose nuove. Acquisisco nuove competenze oppure approfondisco le competenze che ho già. Dal punto di vista del contenitore, una community ti pone nuove sfide che ti permettono di crescere.
Nella tua esperienza, quali sono le differenze principali tra una community che non si pone un diretto fine di lucro e una una community che si sviluppa attorno a un brand o ad un’azienda?
Secondo me la differenza è nella fase di progettazione. Una community ha bisogno di membri che pensano e credono di avere dei bisogni e che la soddisfazione di questi bisogni avviene solo grazie ad un’attività collaborativa. Quella, appunto, che si svolge all’interno della community. Se ho voglia di apprendere, posso farlo da solo o da sola, ma se lo faccio con altre persone posso farlo meglio. Ad esempio, posso ascoltare e parlare con uno speaker che altrimenti non avrei occasione di incontrare. Questa è la base di una community.
Con un Brand Community Program vengono in evidenza anche i bisogni di un’azienda che, per raggiungere un obiettivo, sceglie lo strumento della community. Il valore di una community di questo tipo è nell’intersezione tra il business value della community per l’azienda e il soddisfacimento dei bisogni dei membri. Nella sovrapposizione tra queste due aree si colloca un programma di brand community che serve sia all’azienda che ai membri.
Per riassumere, il focus di una community no-profit è sui bisogni dei membri, il focus di una brand community è nell’intersezione tra i bisogni dell’azienda e quelli dei membri.
Puoi parlarci più nello specifico dei programmi community di Google?
Al momento seguo i tre programmi community tech di Google, il GDG, il GDSC e il programma Women Techmakers.
GDG significa Google Developer Groups ed è un programma community nato una quindicina di anni fa a cui partecipo da circa 11. Il programma è nato con lo scopo di condividere conoscenze sulle tecnologie di Google. Da un lato ci sono quindi i bisogni di una community di sviluppatori, dall’altro quelli di un’azienda alla ricerca di canali dove poter parlare di quello che fa. Questi due bisogni hanno trovato la loro intersezione nel programma GDG.
Gli altri due programmi sono il Google Developer Student Clubs, dedicato agli studenti universitari, e il Women Techmakers, volto a creare un ambiente tech dove tutti possano sentirsi inclusi e rappresentati. La particolarità di questi programmi è che sono focalizzati particolarmente sulle tecnologie Google, ma in queste community non c’è un mandato che vincola alle tecnologie Google. Quello che facciamo è fornire alle community delle proposte, ma alla fine è la singola community che sa quello che è il suo territorio e conosce i suoi membri e le loro esigenze.
Noi ci limitiamo a dare dei suggerimenti che potrebbero essere adatti al territorio, ma niente di più. Questa libertà è alla base del programma community di Google, che ha un’estensione globale, con 3000 gruppi in centinaia di nazioni. Quando hai una scalabilità di queste proporzioni, non esiste un solo modo di fare community. Il programma quindi vuole essere flessibile ma riconoscibile. Un membro del GDG in Australia deve ritrovarsi in qualche modo anche con un membro del GDG in Sud Africa, anche se poi a livello di territorio, cultura, ecc. c’è molta diversità. Nella specificità dei gruppi e dei territori, i programmi community di Google cercano di dare una scatola di identità in cui le persone, la community nel suo insieme e l’azienda riescano a trovare soddisfazione ai rispettivi bisogni.
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